HIKIKOMORI: QUANDO IL PROPRIO MONDO DIVENTA LA STANZA DI CASA
Nessun interesse verso attività esterne – dalla scuola, al lavoro, alle uscite con gli amici – e graduale fuga da qualsiasi tipo di relazione e comunicazione diretta con altri individui. Ecco alcuni aspetti della sindrome di hikikomiri, spiegata con l’aiuto di Alessandra Marazzani, psicologa e psicoterapeuta di Milano

Coniato nel Giappone degli anni Ottanta, primo Paese in cui il fenomeno è stato riscontrato, il termine hikikomori ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti e in Europa. Per quanto riguarda l’Italia, i casi stimati sono più di 100 mila, ma probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg vista talvolta la difficoltà nel diagnosticare il disturbo. Ma di cosa stiamo parlando esattamente?
SIGNIFICATO DI HIKIKOMORI
«Stare in disparte, isolarsi» è il significato della parola hikikomori, termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi). Ecco come l’Istituto Superiore di Sanità si esprime a proposito, tracciando un quadro della sindrome: «Con Hikikomori intendiamo una condizione che riguarda soprattutto adolescenti e giovani adulti e che è caratterizzata da una forma estrema di ritiro sociale: le persone si chiudono nella propria stanza e rifiutano qualsiasi forma di contatto con il mondo esterno anche per lunghi periodi di tempo, interrompendo volontariamente i rapporti con gli altri e mettendo fine a qualsiasi forma di comunicazione, anche quella con i propri familiari».
Alla base di questo fenomeno, che rientra nei disturbi depressivi, ci può essere un trauma vissuto che porta a isolarsi eccessivamente, una forte mancanza di autostima, una pressione troppo alta da parte dei genitori (ma non solo) rispetto all’autorealizzazione e al successo personale. Ma è difficile razionalizzare, tanto è vero che la persona colpita tende essa stessa a negare la sua condizione, come poi vedremo. La vita degli hikikomori arriva quindi via via a svolgersi – con modalità diverse per ognuno a seconda della gravità della condizione – all’interno della loro casa o camera da letto. E ci sono alcuni segnali di allarme che i genitori o il partner convivente, se parliamo di adulti, possono notare.

UNA PRIMA RIFLESSIONE
«Alla pandemia da Covid 19 non si possono certo attribuire tutti i mali della società, ma di sicuro ha “slatentizzato”, cioè messo a nudo, vari disturbi delle persone», dice Alessandra Marazzani, psicologa, psicoterapeuta ed esperta di problematiche psichiche legate ai disturbi d’ansia, depressivi e di personalità border-line. «Lo smartworking, per esempio, ha permesso a chi già sentiva un forte disagio (ma era in qualche modo obbligato ad andare in ufficio) di chiudersi ancora di più in se stesso, eliminando la fatica di doversi muovere da casa ufficio e di relazionarsi vis-à-vis con i colleghi».
I SEGNALI SENTINELLA
Ecco i sintomi da tenere sotto controllo, spiegati dalla psicologa.
MALESSERE ALL’ARRIVO DELL’ORA LEGALE Primavera ed estate sono i momenti di maggior luce e di esposizione all’esterno. Le persone che faticano a gestire gli stati d’animo hanno quasi un “teaming biologico” perché un’ora in più di luce al giorno è troppo per chi vive già la sua vita con timore. Il buio è più rassicurante.
PAURA COSTANTE Un timore incontrollato di qualcosa che può succedere all’improvviso, l’imprevisto insomma, può portare come conseguenza all’isolamento. Non parliamo solo di una generica paura del futuro che tutti possiamo provare (visto anche il complicato periodo che stiamo vivendo da più di due anni), ma di un timore che pervade e che condiziona la quotidianità.
ISOLAMENTO SIA FISICO CHE RELAZIONALE Spesso le persone depresse hanno fame di relazione. Gli hikikomori, invece, hanno bisogno di una distanza anche fisica, faticano a stare vicino ad altre persone. E, più o meno gradualmente, si rifugiano in relazioni virtuali, veicolate dai social (è il loro tentativo di “cura”). Ma non è detto. A volte non chattano nemmeno e si limitano, chiusi in una stanza, ad ascoltare musica, podcast, a leggere, giocare a videogame, oziare, nell’impossibilità di cercare o continuare il proprio lavoro o frequentare la scuola. Vanno incontro, insomma, a una chiusura di pensiero.
ALTERAZIONE DEI RITMI CIRCADIANI In queste persone si assiste a un’importante inversione del ritmo sonno-veglia. Di notte sono sveglie, di giorno tendono a dormire. È uno dei primi segnali importanti che le persone vicine possono notare.
CAMBIAMENTO NELL’ALIMENTAZIONE È sicuramente legato al metabolismo, data l’assenza di attività fisica. Si va per estremi, perché anche in questo caso la sofferenza si può manifestare in maniere diverse. C’è chi è molto inappetente, dimagrisce e può sviluppare anche un disturbo alimentare di tipo anoressico; e chi, al contrario, ingurgita il cibo (bulimia) e non di rado si alza di notte per “svuotare” il frigorifero.

CON LE PERSONE ACCANTO, I RAPPORTI POSSONO DIVENTARE “VUOTI” E CONFLITTUALI
Gli hikikomori faticano ad accettare un aiuto. «C’è una continua minimizzazione-normalizzazione della condizione che stanno vivendo. Quindi al familiare che gli chiede se è uscito di casa può rispondere “ho fatto una passeggiata mentre non c’eri”. O se si informa sul sonno notturno dà rassicurazioni “ho dormito, ma mi sono svegliato prima di te”. Ovviamente, nulla corrisponde al vero» continua Alessandra Marazzani. «Ma l’intelligenza di chi soffre di questa condizione – sì, perché di solito gli hikikomori sono ragazzi e giovani adulti molto intelligenti – è come se all’inizio fosse “a servizio” della malattia: raccontano bugie anche a se stessi, come se fossero dentro una bolla, per convincersi che va tutto bene. Alcuni riti familiari, come cenare insieme, a volte vengono mantenuti, ma si spogliano di ogni scambio emotivo».
HIKOKOMORI: DAL SOSPETTO ALLA CURA
Come detto sopra, le persone che stanno andando incontro a questa sindrome negano la loro condizione. Quindi genitori e partner (e talvolta anche il datore di lavoro con cui si ha un buon rapporto) non possono entrare “a gamba tesa” nel loro mondo. Sarebbe controproducente.
«Si può iniziare in maniera soft a consigliare un’attività sportiva che si pensa possa piacere o, in caso di disturbi del sonno, a proporre una visita dallo specialista, come un neurologo», spiega l’esperta. «Se però la persona rifiuta ogni tipo di intervento che possa farla uscire dal suo “guscio”, sta al familiare cercare aiuto. Capire come potersi rapportare col figlio (o il partner) è un aspetto molto importante, anche se purtroppo ancora poco diffuso. Bisogna saper affidarsi e fidarsi, senza aver paura di rivolgersi alle strutture sanitarie competenti: l’obiettivo è cercare di prendere in tempo il problema prima che cronicizzi. In alcuni casi di livello grave e protratto di auto-reclusione, alcune figure come il neuropsichiatra, l’assistente sociale o l’educatore possono anche prevedere visite domiciliari, al fine di “stanare” poco a poco la persona che soffre di questa condizione, aumentando gradualmente il contatto sociale».

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