Compassione: una strada per la felicità
Se chiediamo a dieci persone che cosa li renda felici probabilmente avremo dieci risposte diverse. Se, invece, chiediamo al Dalai Lama quale sia la strada per la felicità, di risposta ne otterremo solo una, ovvero, che il raggiungimento di essa passa dalla compassione. Ed è sempre lui a definire quest’ultima come: “Una sensibilità verso la sofferenza di noi stessi e degli altri, unita ad un profondo impegno nel tentare di alleviarla”.
Può, quindi, lo sviluppo della compassione per sé stessi e per gli altri aiutarci a raggiungere la felicità? Oltre al già citato Dalai Lama, numerose ricerche ci dicono che esiste un comune denominatore nella ricerca della felicità, vale a dire, un desiderio di armonia interiore e interconnessione familiare e sociale.
Entrambi questi fattori vengono declinati con valenze diverse a seconda della cultura di appartenenza. E ciò deriva anche dal fatto che il significato e l’etimologia della parola felicità cambiano a seconda della radice linguistica.
Nelle lingue neo-latine, per esempio, la parola felicità deriva da felicitas, derivazione di felix-icis, la cui radice indoeuropea “fe” significa crescita, fertilità, abbondanza, prosperità, rimandando a un processo di sviluppo.
Diversamente, l’etimologia della parola happiness deriva da fortuna, fato favorevole e si riferisce piuttosto alla realizzazione di un evento, infatti, presenta la stessa radice del verbo to happen (succedere, accadere) che collega il fato e le circostanze alla felicità. Tuttavia, nel corso del tempo il termine happiness ha assunto un significato rivolto più che altro a uno stato interiore positivo, di raggiungimento delle proprie aspirazioni, specialmente nel contesto protestante statunitense. Secondo le ultime ricerche, nelle lingue di origine sassone o latina, con il termine felicità oggi ci si riferisce prevalentemente al raggiungimento dell’armonia nelle sue manifestazioni individuali e sociali.
Compassione ed empatia: quali sono le differenze?
La maggioranza degli studiosi concorda sul fatto che, mentre la compassione ci spinge all’altruismo suscitando in noi il desiderio di attivarsi per aiutare chi soffre, l’empatia ci permette di sentire la sofferenza altrui, ma non ci spinge all’azione. Il rischio è quello di venire travolti dalle emozioni degli altri e che la ragione venga annebbiata.
Gli esperimenti di Singer e colleghi (2014) hanno confermato queste differenze osservando che il training in compassione (il cui obiettivo era provare pensieri positivi e amorevoli verso gli altri senza sentirne di riflesso la sofferenza come vissuta in prima persona) aveva promosso nei partecipanti comportamenti prosociali nonché un incremento di sentimenti positivi e di resilienza per una migliore gestione delle situazioni stressanti. A differenza del training in empatia che poteva condurre al distress empatico, un fattore di rischio per il burn-out dove l’esperienza spiacevole può portare le persone a evitare situazioni che possano scatenare sentimenti negativi. Inoltre, i ricercatori hanno riscontrato l’attivazione di reti neurali diverse durante i due tipi di training.
Quando proviamo compassione ad attivarsi sono le stesse reti neuronali della benevolenza, dei sentimenti di calore, amore e sollecitudine. Viene così confermato il legame tra compassione e altruismo e tra altruismo e felicità.
Praticare la Mindfulness per sviluppare la compassione
Sviluppare la compassione significa imparare a:
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- Riconoscere la sofferenza dell’altro
- Comprendere l’universalità della sofferenza nell’esperienza umana
- Sentirsi emotivamente connessi con la persona sofferente
- Sopportare i sentimenti spiacevoli che possono sorgere
- Agire o essere motivato ad agire per alleviare la sofferenza dell’altro
Le pratiche di mindfulness possono aiutarci a sviluppare queste caratteristiche. In particolare, grazie alla meditazione sull’Amorevole Gentilezza che coltiva la benevolenza, la cura verso sé e verso gli altri e ci aiuta a sviluppare un maggior numero di pensieri con valenza positiva. Alcune ricerche dimostrano che dopo sole 16 ore di training questa pratica può ridurre l’insorgere di pregiudizi inconsci e rafforzare l’inclinazione ad aiutare gli altri. I risultati vengono potenziati se a questa abbiniamo la meditazione sull’Attenzione al Respiro che porta a una diminuzione del numero di pensieri, a una minore tendenza alla distrazione e a un aumento della concentrazione sul presente, oltre che a una maggiore energia e consapevolezza interocettiva.
Le neuroscienze, a seguito dei risultati delle ultime ricerche psicologiche che suggeriscono come un addestramento mentale possa sviluppare specifiche emozioni sociali, hanno cominciato a studiare la plasticità neurale sottostante la capacità di empatia e compassione. In una serie di studi (Singer e Klimecki, 2014), è stato richiesto ai partecipanti di sottoporsi a scanning cerebrale mentre assistevano a brevi spezzoni di film che mostravano altre persone sofferenti. Il loro cervello di meditatori principianti è stato esaminato prima e dopo che partecipassero a uno specifico allenamento mentale per lo sviluppo dell’empatia e della compassione. I risultati hanno rivelato che il training basato su vari giorni di pratica di meditazione sulla compassione ha generato un incremento di sentimenti positivi e l’attivazione di una rete neurale relativa alle emozioni positive.
Queste scoperte sottolineano la malleabilità delle emozioni sociali e mostrano come un breve training, anche solo di alcuni giorni, possa aiutarci a sviluppare sentimenti positivi. È dimostrato che un addestramento mentale di nove mesi con le pratiche di mindfulness possa renderci più felici, incrementare le nostre energie, renderci maggiormente consapevoli del nostro corpo, più presenti nel momento e più in grado di non lasciarci coinvolgere da pensieri distraenti, ovvero dal vagare della mente che è infelice quando rotola tra passato e futuro.
Psicologa e Istruttore Mindfulness